Il calcio in Italia è sempre stato molto più di un gioco: è passione, identità, cultura. Ma, mentre un tempo si sapeva esattamente chi tirava le fila di una squadra,  oggi il panorama è un groviglio di quote, fondi d’investimento e proprietari fantasma. Tra sceicchi, miliardari stranieri e cordate di private equity, capire a chi appartengono veramente le squadre di Serie A è diventato un rompicapo degno di un thriller finanziario.

Calcio: quando tutto era più chiaro

Fino a qualche decennio fa, il calcio italiano era un affare di famiglie e imprenditori. Gli Agnelli con la Juventus, Moratti con l’Inter, Berlusconi con il Milan. Bomi che evocavano non solo il potere economico, ma anche una certa aura romantica. Il presidente era il volto della squadra, il “padrone” che metteva i soldi e spesso si sedeva in tribuna a godersi lo spettacolo (o a imprecare contro l’arbitro). Certo, non era tutto rose e fiori: gli scandali non mancavano, da Calciopoli alle gestioni allegre di alcuni club. Ma almeno si sapeva chi comandava, chi pagava e, soprattutto, chi ci rimetteva.

Il caos di oggi

Le squadre non sono più feudi di singoli magnati, ma puzzle di quote azionarie, fondi d’investimento e holding con sede in paradisi fiscali. La globalizzazione ha trasformato il calcio in un business miliardario, e l’Italia non è immune. Come scrive Forbes, ben 7 club di Serie A su 20 sono in mano a proprietà americane, senza contare indonesiani, canadesi e sceicchi arabi. Ma chi sono davvero questi proprietari? E perché è così difficile capirlo?

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Inter, un gioco di scatole cinesi

Prendiamo l’Inter, un caso emblematico. Fino al 2024, il club era sotto il controllo di Suning, il colosso cinese di Zhang Jindong. Poi, a causa di un debito non ripagato, il fondo americano Oaktree ha preso il controllo. Semplice? Mica tanto. Suning aveva già ceduto quote al fondo Lion Rock Capital, e ora ci si chiede: chi decide davvero? Oaktree è un fondo di private equity, non un appassionato di calcio che sogna la Champions. Il loro obiettivo è il profitto, non il romanticismo del pallone.

La questione Milan, Juventus e non solo

E poi c’è il Milan, passato da Yonghong Li (un mistero cinese) al fondo Elliott, e ora nelle mani di RedBird Capital Partners di Gerry Cardinale. Anche qui, la proprietà è un’entità astratta, un fondo che gestisce miliardi e vede il calcio come un asset tra tanti. La Roma? Dan Friedkin, miliardario americano, ha rilevato il club da James Pallotta, altro americano. La Fiorentina di Rocco Commisso e l’Atalanta con il 55% in mano a Stephen Pagliuca (Bain Capital) seguono lo stesso copione: proprietari stranieri, spesso con quote frammentate tra fondi e investitori.

Persino la Juventus, ultimo baluardo delle famiglie tradizionali italiane con gli Agnelli, è quotata in Borsa dal 2001, con l’11,9% delle azioni in mano al fondo britannico Lindsell Train Limited. Tradotto: anche la “Vecchia Signora” non è più solo degli Agnelli, ma di un mosaico di investitori che potrebbero essere più interessati ai bilanci che ai trofei.

Calcio e multiproprietà: il caso delle “scuderie” globali

Se non bastasse la complessità delle quote, il calcio italiano è stato travolto dal fenomeno delle multiproprietà (MCO, Multi-Club Ownership). Gruppi come il City Football Group, che possiede il Palermo (e il Manchester City, tra gli altri), o il fondo 777 Partners, che controlla il Genoa, gestiscono squadre come se fossero filiali di una multinazionale. Questo crea conflitti d’interesse, rischi di “player trading” sospetto e una sensazione di impersonalità. In pratica, il tuo club non è più solo tuo, ma parte di una rete globale dove i tifosi sono solo una voce nel bilancio.

Calcio quotato: la Juventus e il sogno (infranto?) di Piazza Affari

Un tempo, quotarsi in Borsa sembrava la via per il futuro. La Lazio fu la prima nel 1998, seguita da Roma e Juventus. Ma il sogno di trasformare il calcio in un business finanziario si è rivelato un flop. La Lazio e la Roma sono uscite dal listino, e la Juventus resta l’unica squadra di Serie A ancora quotata, con un titolo che alterna euforia a crolli, spesso legati ai risultati in campo più che a una solida strategia finanziaria. Come nota soldiexpert.com, investire in azioni di squadre di calcio è “più rischioso del gioco d’azzardo”.

Perché? Perché i bilanci dei club dipendono da variabili imprevedibili: un goal al 90°, un infortunio, un mercato sbagliato. La Juventus, nonostante il blasone, ha perso circa il 10% del valore iniziale dalla sua quotazione. E poi c’è la questione della trasparenza: i tifosi, che un tempo si identificavano con il presidente, oggi non sanno nemmeno a chi scrivere per lamentarsi di un rigore negato.

Calcio e tifosi: chi comanda davvero?

E qui arriviamo al cuore della polemica. Il calcio italiano, un tempo orgoglio nazionale, è diventato un giocattolo in mano a fondi d’investimento e magnati stranieri. I tifosi, che riempiono gli stadi e comprano magliette, sono sempre più emarginati. Le proprietà sono entità astratte, lontane, che rispondono a logiche di mercato, non al cuore della curva. Come scrive Morningstar, il 35,7% dei club dei principali campionati europei è finanziato da capitali privati, spesso americani, che vedono il calcio come un business, non come una tradizione.

Il calcio italiano, un affare poco romantico

E allora, a chi appartengono veramente le squadre? Non certo ai tifosi, ridotti a clienti. Non ai presidenti di un tempo, figure quasi mitologiche. Appartengono a fondi, holding, sceicchi e miliardari che spesso non hanno mai messo piede in uno stadio italiano. È il prezzo della globalizzazione, diranno alcuni. Ma a noi, che cantiamo sotto la pioggia per novanta minuti, chi ci ripaga?

Conclusione

Il calcio in Italia è un microcosmo di contraddizioni: passione popolare e freddi calcoli finanziari, tradizione e globalizzazione. Capire chi possiede le squadre è come cercare di decifrare un bilancio consolidato di una multinazionale. Le proprietà si nascondono dietro fondi, quote e sigle impronunciabili, lasciando i tifosi con un’amara verità: il loro amore per la squadra è l’unica cosa che non è in vendita. Ma, in fondo, non è sempre stato così? Forse sì, ma almeno una volta sapevamo con chi prendercela.

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